TRE, NUMERO PERFETTO. PER L’APLOMB MASCHILE.
“Gilet” in francese e in italiano – panciotto in verità -; “waistcoat” in inglese, “Weste” in tedesco, “chaleco” in spagnolo. E da qui si parte. O meglio, dalla Spagna dominata dagli Arabi per secoli. Mediato dal turco “yalec”, il termine approda nella parte meridionale del nostro continente, per designare un capo relativamente corto e senza maniche, che “los moros” indossano sopra la tradizionale djellaba, la tunica ampia e lunga che costituisce ancor oggi, pur con nomi differenti, la base del’abbigliamento tradizionale maschile dal Maghreb all’India. Certo, il gilet contemporaneo ha anche i suoi ascendenti occidentali. Il farsetto – o giubba – medioevale e rinascimentale, indossato in particolare dagli uomini di giovane età e stretto al busto dai nastri posizionati sulla schiena: ricamato, intarsiato, abbellito in mille modi. Il capo ideale per esaltare un fisico ben fatto e in cui pavoneggiarsi. Nell’evoluzione del vestire al maschile, il gilet perde il suo ruolo “autonomo”, ma entra a far parte, accompagnandosi a giacca e pantaloni, della “trinità” che costituisce il caposaldo dello stile formale da uomo, il completo a tre pezzi. Ciò accade quasi un secolo prima dalla istituzionalizzazione dell’abito borghese. Ancora in epoca di Ancien Régime. Tanto il ceto aristocratico come la classe borghese usano vestire la giacca a marsina che si allarga verso il fondo, i pantaloni al ginocchio ed il gilet con le falde anteriori un po’ più lunghe della parte posteriore che si ferma in vita. A seconda del livello sociale mutano tessuti, colori, dettagli. Non solo per ragioni di possibilità economiche. Soprattutto per motivi di rappresentanza, per visualizzare uno status ben preciso.
Per la “bourgeoisie” in corsa verso il potere, soprattutto nei Paesi in cui domina l’etica luterana o calvinista, è quasi doveroso indossare giacca, pantalone e gilet del medesimo colore, spesso scuro e severo, di materiali solidi e resistenti, a testimoniare la validità di certezze morali attraverso sobrietà e misura. All’opposto, l’aristocrazia si veste di tessuti preziosi, rari, costosi. Si pone al di fuori della norma e vive al di sopra delle righe, in un gioco alla costante ricerca della stravaganza, del “dernier cri”. Ed il gilet concede campo libero ad un florilegio di decorazioni, stampe, ricami, applicazioni. E’ la fiera delle vanità trasformata in capo d’abbigliamento. Congresso di Vienna e rivoluzione industriale ridefiniscono gli equilibri. Il completo a tre pezzi diventa LA norma del vestire formale. Così come diventa norma la pacatezza. I pantaloni arrivano al suolo, la giacca, decennio dopo decennio, cambia foggia ma non così tanto, il gilet resta, di norma nello stesso colore e materiale. Non sempre: dandy e bohémiens, seppur nel rispetto della regola della “trinità” vestimentale, concentrano nel gilet tutti i loro sforzi per “épater le bourgeois”. Così si procede sino ad oggi. Con qualche decennio, i Sessanta in particolare, che vede i tre pezzi ridursi quasi sempre a due, in un processo di sveltimento ulteriore del vestire e di assottigliamento della silhouette maschile. Con qualche ritorno di fiamma: i broker rampanti alla Michael Douglas in versione Wall Street optano per completi super gessati, sopra camicie iper-rigate, abbinate a gilet “too much” o a bretelle in bella vista larghe sino a quattro dita. Fuochi di paglia… Nella moda contemporanea è abbastanza raro che certe esasperazioni abbiano spazio o mercato. Si vedono semmai in passerella, Non certo nelle vetrine. Del resto tre è anche il numero dell’armonia. Giorgio Re
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