RIVOLUZIONE BORGHESE?
Quando il mondo cambia, mutano costumi e stili di vita e, di conseguenza, si modifica anche il modo di vestire. Il paletot nasce nel quadro di una duplice rivoluzione storico-sociale-economica: da un lato l’affermazione definitiva, in particolare nell’Impero britannico, di un nuovo ceto produttivo; dall’altro, in Francia, l’ascesa al potere del Terzo Stato. In questo contesto, il cappotto maschile risulta da un somma di fogge e funzioni d’uso: quelle della marsina settecentesca – nelle declinazioni sobrie predilette dalla nuova classe in crescita – e quelle dei pastrani militari in ruvido panno della Grande Armée napoleonica. Sintetizzando, la natura del capo si manifesta nell’allungamento della marsina e nella trasposizione nel vestire civile delle potenzialità di un indumento da guerra, in primis la capacità di proteggere dal freddo e dalle intemperie. Il debutto in società del cappotto ha il sapore di un exploit. Ne sono protagonisti gli “incroyables” – così erano chiamati gli esponenti di un movimento caratterizzato da un lusso estremo ostentato e da stravaganze esibite nell’abbigliamento e nella condotta di vita – che negli anni della Rivoluzione e del Direttorio considerano un dovere “l’essere alla moda” senza per questo estraniarsi dal cambiamento. E’ forte la volontà di esasperazione: vita strizzata al massimo, falde che sfiorano il suolo, risvolti esagerati che lasciano in bella vista il collo della camicia rialzato e fermato da chilometriche cravatte a nastro. Pochi decenni dopo anche per il cappotto giunge la Restaurazione. Rappel a l’ordre! Decoro e rigore sono diktat imprescindibili. Il paletot ora va bene anche per il Principe von Metternich, i banchieri di Londra, i ministri dello Zar.
Il capo nato di recente entra nella casistica dell’abbigliamento formale dell’epoca industriale. Senza mai più perdere né ruolo né prestigio, neppure quando le società avanzate diventano post-industriali e la globalizzazione abbatte ogni frontiera. Sostanzialmente misurato nella conformazione, il cappotto viene declinato in tutte le tipologie di lana, dalle più pregiate – cachemire, vicuňa, mohair, cammello, alpaca – sino al panno e al feltro, più accessibili, oppure al tweed, disinvolto e sportivo, mediato dalle consuetudini della “gentry” anglosassone. Si aggiungono il velluto – che conquista il primato per i modelli da sera e la pelle – mai veramente amata dai borghesi doc – ma resa lugubremente iconica dai totalitarismi del ‘900. E’ imperativa la sobrietà della palette cromatica. Sono di prammatica le tinte dense ed intense, rassicuranti e virili. Come accade per l’abito, le superfici del paletot si animano di tutte le fantasie al maschile alternative all’unito. L’unico elemento che esula dalla severità è il collo, se non l’intera fodera, in pelliccia: non certo per concessione alla stravaganza, piuttosto per manifestazione di agiatezza. Con i Roaring Twenties, si attenua l’obbligo della moderazione formale. Il paletot acquista volume, si allunga, i rever tornano ad essere importanti. Con qualche micro-variazione, questa configurazione resiste sino al secondo dopoguerra. Solo con l’imporsi del “Mad Men Style”, il cappotto si riavvicina al corpo, perde centimetri in lunghezza e ampiezza, per poi recuperarli negli anni ’80, nel segno dell’edonismo. Il presente del cappotto è il presente della moda Uomo: non più tendenze impositive che cambiano da una stagione all’altra, semmai pluralità di proposte tra cui orientarsi in base al gusto o alla necessità. E ancora: attenuazione delle barriere tra formale e casual, avvicinamento alle altre tipologie di “outerwear”, ottimizzazione tecnologica nella resa materica e nella vestibilità. Giorgio Re
When world changes, habits and lifestyle change too and, consequently, the way of dress. … Continua a leggere →