norman parkinson

CHI PORTA I PANTALONI? DECLINAZIONI TRA MASCHILE E FEMMINILE

Natura docet. E’ il leone, e non la leonessa, ad avere una criniera sontuosa. E’ il pavone maschio a sfoggiare una ruota dalla bellezza strabiliante. Si è già detto che “la vanità è uomo”. Ma lo sfaccettato rapporto tra il vestire al maschile e quello al femminile va ben oltre questa considerazione. Si tratta di una relazione da sempre bidirezionale, scandita da interscambi, commistioni, condivisioni di fogge, tipologie e materiali. E’ più facile cogliere ciò che la donna, a partire dall’inizio del ventesimo secolo ha “rubato” all’uomo in fatto di abbigliamento. Nel nome sacrosanto dell’uguaglianza e dell’equiparazione. I pantaloni sono l’elemento più scontato, non certo l’unico.

Ad essi si affiancano il completo da lavoro – il tailleur in tessuti e fantasie maschili – magari ingentilito. E ancora, la camicia dal taglio severo, che i signori completano con la cravatta e le signore sbottonano un poco ed ingentiliscono con un foulard o un gioiello. L’apoteosi probabilmente si raggiunge grazie a Christian Dior. Mentre i grandi d’Europa ricostruivano il continente dopo le devastazioni della Seconda Guerra Mondiale, lui ricostruiva il glamour dopo gli anni delle privazioni e lo consegnava al presente.

Ma lo ha fatto ricorrendo, appunto, anche a textures e disegnature tradizionalmente da uomo – lane “secche” gessate, a Principe di Galles, a pied de poule – con cui ha realizzato persino abiti da sera incredibilmente sontuosi. Ed indiscutibilmente femminili, donanti, sensuali. Più sottile, ma non meno intrigante, è la lettura di ciò che è accaduto in direzione opposta. Si può capire che cosa l’uomo ha fatto proprio attingendo al vestire femminile? Sicuramente sì. Avendo però presente che la barriera tra i due guardaroba è un dato relativamente recente. Risale all’inizio del diciannovesimo secolo, con l’affermazione del ceto borghese ed una codificazione dei canoni dello stile tanto rigida quanto la morale pubblica ufficialmente stabilita – non sempre privatamente praticata – dalla nuova classe dominante.

Sino ad allora abbigliamento maschile e femminile avevano viaggiano in parallelo, se non in sovrapposizione. Dall’antichità a tutto il Medio Evo, donne e uomini si coprivano con tuniche e mantelli. Le tuniche potevano avere o non avere le maniche, potevano essere fermate in vita da una cintura, potevano essere più o meno lunghe. In sintesi: cambiavano i dettagli, ma non certo la foggia di base. Più tardi, dal Rinascimento all’era napoleonica, le tipologie un po’ si diversificano. Compaiono i pantaloni, a metà coscia prima, al ginocchio poi. E sono gli uomini a portarli.

Ma al di là di ciò, qualcuno può stabilire se fossero più preziosi i ricami, le applicazioni di pietre preziose, gli intarsi che arricchivano gli abiti di Enrico VIII o quelli di Elisabetta la Grande? Quelli di Luigi XVI o quelli di Madame du Barry? Senza parlare delle acconciature, della cascate di pizzi, nastri, volants, ruches usati in profusione al maschile come al femminile. Ora abbigliamento maschile e femminile si sono reciprocamente “ritrovati”. L’uomo riscopre l’uso del colore per esempio, dopo oltre un secolo di grigio, marrone, blu, nero… Non ha più paura di mostrare il corpo e, con esso, la propria sensualità, anche nel vestire formale, strizzando ben bene il cappotto o il trench, come fa la donna.

Scegliendo giacche con tagli, revers ed abbottonature che “segnano” il torso nei punti-chiave, vita e spalle in primo luogo. Indossando maglie fluide che non sono più dei semplici “sotto giacca”. Del resto, qualcuno oggi trova strano che un uomo porti un twin set? Osando con gli accessori, dalle cinture ai cappelli. Non rinunciando più a ricami e lavorazioni non solo sulle camicie, ma anche sui capi-spalla. L’uomo continua a portare i pantaloni. Questo è certo. Ma sa benissimo che da quasi cento anni li porta anche la donna. Giorgio Re

Dettagli di foto di Norman Parkinson ricavate dal volume “Parkinson Photographs 1935-1990” di Martin Harrison.

 

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