luisa ciuni

CRUELTY FREE

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Stella Mc Cartney, che a novembre presenterà la sua prima linea di menswear

Produrre inquina. Di conseguenza, molte aziende del fashion, non potendo rinunciare a farlo, si stanno strutturando per limitare al massimo i danni sull’ambiente. Ma siccome il concetto di moda etica è estremamente vasto e diversificato, alcuni marchi sono andati oltre l’attenzione verso l’impatto ambientale.

Alcuni si sono focalizzati sui tessuti, altri sulle condizioni di lavoro dei propri operai mentre altri, sommando in un’unica sintesi i fattori, hanno stabilito di varare solo prodotti “cruelty free”, fabbricati cioè senza sofferenza animale, con una seria attenzione ai terzisti e utilizzando al massimo materiale riciclato per limitare danni a fiumi, laghi, montagne, aria.

Una soluzione di necessario compromesso che, nella sua portata complessiva, ricorda un po’ il mondo dei vegani (nel bene e nel male). Perché riesce ad evitare pelle, piume, pellicce e persino certi tipi di lana per non causare sofferenza agli animali, ma non rinuncia al sintetico. Tema fortissimo quello animalista, tema urticante: decisione che comporta molti sacrifici di stile e che, in certi casi, vende plastica o cotone rinforzato al prezzo delle stoffe o dei materiali più raffinati. Un doppio affare? All’acquirente arriva un prodotto che non sempre vale il costo richiesto, essendo costituito da materiali poveri. Ma non usare pellame riduce l’inquinamento ambientale e il consumatore finale condivide questa opzione, grazie anche a una moral persuasion planetaria.

Stella McCartney è una paladina del “cruelty free“, tanto che la sua azienda si autodefinsce “vegetariana” ed ha eliminato non solo i derivati animali ma anche quelli il cui utilizzo comporta ulteriori elementi di crudeltà verso le bestie come la lana d’angora. Il marchio ha realizzato una catena animalista verticale che non cede a compromessi di sorta. Nel mondo del cuoio cucito a mano, la sua ultima invenzione sono le scarpe “Brody”, modello dalle linee unisex. Nessuna bestia è stata sacrificata per fabbricarle e sono perfettamente eco-friendly. Speriamo che Crozza non lo scopra mai, se no finisce a sketch come col cuoco vegano. Luisa Ciuni

 

Manufacturing pollutes. As a consequence,

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BEAUTIFUL AND GOOD

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L’archivio dell’azienda Canepa di Como

Kalos Kagathotos era la definizione con cui gli antichi greci riunivano in un unicum il buono e il bello, dando vita ad un’unità fra i due concetti che solo il mondo moderno avrebbe scardinato dal punto di visto estetico. Oggi, senza volere fare paradossi, una parte illuminata dell’imprenditoria della moda sta applicando questo antico concetto per realizzare prodotti ad un tempo belli e contemporaneamente buoni, sia per il consumatore, sia per l’ambiente. E siccome siamo un popolo di studi classici, la tendenza si rivela, per non dire si afferma, anche nella fruizione ed esposizione dell’arte che vediamo, ad esempio, in Fondazione Prada o nel  nuovo Museo Salvatore Ferragamo. Che rispetto ad altre iniziative, si segnala con una ulteriore novità: ha ottenuto la certificazione Iso14064 in materia di sostenibilità ambientale. È il primo spazio espositivo d’arte ad emissione zero del nostro paese. Un traguardo importante che si accompagna ad una produzione di grande livello artigianale, dove un costo finale alto comporta per il consumatore il vantaggio di una qualità fuori dal tempo.

Ma anche il mondo dei filati si muove in questa direzione: quella di una produzione ecostenibile che si tramuti in un bell’oggetto (diciamocelo, molte collezioni alternative, sia pure nate con  le migliori intenzioni e certamente meritorie, hanno risultati estetici modesti). Il gruppo Canepa di Como produce attuando il brevetto “save the water”, risparmiando il 90% di acqua nella fase industriale rispetto al passato. Il tutto diventa sciarpe e foulard che aiutano l’ambiente e i disastrati fiumi italiani. Belle e buone, appunto. Luisa Ciuni

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WHO MADE MY CLOTHES?

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“Chi ha fatto i miei vestiti?”. Con questo slogan si è celebrato nei giorni scorsi il “Fashion revolution day“, una manifestazione kermesse a favore della moda etica che il 24 aprile, ha voluto ricordare come sempre la strage del Rana Plaza in Bangladesh. Un complesso produttivo che nel 2013 crollò seppellendo oltre mille persone prevalentemente sartine che vi lavoravano all’interno, intente a produrre abiti per il mondo occidentale. Dopo molto dibattito, una proposta: spingere la gente ad aderire al movimento ‘chi ha fatto i miei vestiti?’ indossando gli abiti a rovescio per mostrarne l’etichetta e poi chiedere attraverso i social ai produttori da chi provengano jeans, T-shirt, cappotti, giacche. O, (perché no?) eleganti abiti da sera. Si tratta di una provocazione che ha un suo perché, portata avanti da chi non vuole più premiare chi fa cucire i vestiti in Estremo Oriente a prezzi da fame e poi non lo dichiara nell’etichetta. Di fatto è una giustificata richiesta di trasparenza che va oltre la semplice domanda, la provocazione elementare. E che rivela come la coscienza del consumatore stia evolvendo piano verso una maggiore consapevolezza del prodotto, un po’come è accaduto con il cibo con l’accresciuta richiesta di prodotti bio e a chilometro 0. Chi mangia sano con un occhio anche alla salute del pianeta (oltreché alla propria) ormai desidera anche un abbigliamento salubre per sé stesso ed etico per la Terra. E non accetta di sovvenzionare lavoro schiavistico o addirittura minorile. Funzionerà? Chi scrive non crede che la protesta spingerà i marchi a dichiarare chi cuce gli abiti e dove ma ritiene che il movimento di opinione li costringerà a produrre prodotto rintracciabili senza timore di figuracce. E a farlo sapere. Non per amore della causa ma del marketing. Ci guadagnerà? É probabile e non irrealistico. Del resto l’insalata bio è più cara di quella comune, no? Figuriamoci le magliette. Luisa Ciuni

 

“Who made my clothes?”.

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A GREEN LIFESTYLE

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Una vista di Casa Zegna

Nel corso delle recenti sfilate di febbraio la Camera della Moda ha presentato una serie di linee guida per rendere ecosostenibile la moda italiana. Un documento elaborato con Sistema moda Italia, Federchimica, Fondazione Altagamma, l’Associazione Tessile e salute e l’Unic del settore concerie, che rappresenta un passo avanti rispetto alla mancanza di attenzione verso queste problematiche ma che, tuttavia, non obbliga nessuno degli associati a seguirle. E che, quindi, se si eccettua la singola sensibilità, rischia di rimanere una bella dichiarazione di intenti, di assoluta validità e poca efficacia.

Ma la moda italiana ha dentro di sé elementi formidabili di reazione e li dimostra anche nel campo dell’etica, specialmente quando ha la possibilità di fondere in un unico progetto necessità ambientali, produzione e cultura. Prada, attraverso la Fondazione, ha da poco elaborato un progetto dove diffusione dell’arte e valori della Casa si uniscono in un programma multiplo che si dipana come un fil rouge tra etica della produzione, diffusione del bello, condivisione dei suoi valori più profondi. Arte, mostre, cinema diffusi a 360 gradi con modalità che vanno oltre la moda per diventare uno stile di vita contribuendo a ideare un nuovo umanesimo.

Altrettanto importante è l’esempio di Zegna che ha elaborato progetti e programmi di pensiero verde, attualmente resi organici da una Fondazione che gestisce anche l’Oasi Zegna, parco naturale ad accesso libero esteso per circa 100 Km2 tra Trivero e la Valle Cervo, nelle Alpi Biellesi in Piemonte. Un passo ulteriore perché dona ai cittadini anche la possibilità di usufruire di una natura magnifica.

E In occasione delle giornate Fai dedicate alla primavera – 19 e 20 marzo- apre le porte di Casa Zegna e del Lanificio Zegna a chiunque voglia visitarle.

Esempi guida entrambi che vanno oltre le dichiarazioni d’intenti e che dimostrano che, su questi temi, la concorrenza riusciamo ancora a lasciarla indietro. Luisa Ciuni

 

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THE FASHION HEROINE

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Vivienne Westwood in una delle immagini della campagna s/s 2016

L’immagine è chiara: Vivienne Westwood a prua, sullo sfondo di Venezia. Una protesta contro lo sfregio della città da parte dei transatlantici abilitati a passare fra i canali. Che campeggia sul sito della stilista inglese, oramai quasi interamente dedicato all’ambiente e ai crimini, perché sono definiti così, che stanno distruggendo il pianeta. Perché quello della Westwood è un interesse per la moda etica che va oltre materiali e produzione pulita per sposare in pieno tutte le battaglie per la salvaguardia dell’ambiente. Dall’emissione dei gas alla tutela della foresta pluviale fino alla salute del mare invaso dalla plastica e dai veleni. Trecentosessanta gradi di argomenti, rinforzati da articoli specifici che spostano l’attenzione del lettore da vestiti e accessori fino a temi come i gorilla di montagna minacciati dall’ estinzione o la moda low cost. Per ribadire, in questo caso, un “comprate meno, comprate meglio” che ricorda le battaglie di Don Chisciotte ma che si ribella contro lo spreco, l’acquisto ingiustificato, la società dei consumi. Di cui, però, oggettivamente, la moda è parte integrante. Una presa di posizione di notevole generosità quella della Westwood, ma che non indica soluzioni; tuttavia pone a disposizione di queste tematiche uno spazio informato, ricco, pieno di slancio, tutt’altro che frivolo. Un esempio per indicare quanta acqua sia passata sotto i ponti dai primi appelli delle celebrities per la moda etica e i banali primi abiti eseguiti con materiale riciclato o biologico. Oggi, che persino Prada ha fatto della produzione etica un manifesto di politica aziendale (a dimostrazione di quanto l’argomento “tiri” e stia entrando nel pensiero comune), la generosità visionaria della stilista inglese esce dal fronte del bene per approdare a quello del meglio. Non più moda pulita ma pianeta pulito. Luisa Ciuni

The message is clear: … Continua a leggere →