Giorgio Re

RIVOLUZIONE BORGHESE?

Quando il mondo cambia, mutano costumi e stili di vita e, di conseguenza, si modifica anche il modo di vestire. Il paletot nasce nel quadro di una duplice rivoluzione storico-sociale-economica: da un lato l’affermazione definitiva, in particolare nell’Impero britannico, di un nuovo ceto produttivo; dall’altro, in Francia, l’ascesa al potere del Terzo Stato. In questo contesto, il cappotto maschile risulta da un somma di fogge e funzioni d’uso: quelle della marsina settecentesca – nelle declinazioni sobrie predilette dalla nuova classe in crescita – e quelle dei pastrani militari in ruvido panno della Grande Armée napoleonica. Sintetizzando, la natura del capo si manifesta nell’allungamento della marsina e nella trasposizione nel vestire civile delle potenzialità di un indumento da guerra, in primis la capacità di proteggere dal freddo e dalle intemperie. Il debutto in società del cappotto ha il sapore di un exploit. Ne sono protagonisti gli “incroyables” – così erano chiamati gli esponenti di un movimento caratterizzato da un lusso estremo ostentato e da stravaganze esibite nell’abbigliamento e nella condotta di vita – che negli anni della Rivoluzione e del Direttorio considerano un dovere “l’essere alla moda” senza per questo estraniarsi dal cambiamento. E’ forte la volontà di esasperazione: vita strizzata al massimo, falde che sfiorano il suolo, risvolti esagerati che lasciano in bella vista il collo della camicia rialzato e fermato da chilometriche cravatte a nastro. Pochi decenni dopo anche per il cappotto giunge la Restaurazione. Rappel a l’ordre! Decoro e rigore sono diktat imprescindibili. Il paletot ora va bene anche per il Principe von Metternich, i banchieri di Londra, i ministri dello Zar.

Il capo nato di recente entra nella casistica dell’abbigliamento formale dell’epoca industriale. Senza mai più perdere né ruolo né prestigio, neppure quando le società avanzate diventano post-industriali e la globalizzazione abbatte ogni frontiera.  Sostanzialmente misurato nella conformazione, il cappotto viene declinato in tutte le tipologie di lana, dalle più pregiate – cachemire, vicuňa, mohair, cammello, alpaca – sino al panno e al feltro, più accessibili, oppure al tweed, disinvolto e sportivo, mediato dalle consuetudini della “gentry” anglosassone. Si aggiungono il velluto – che conquista il primato per i modelli da sera e la pelle – mai veramente amata dai borghesi doc – ma resa lugubremente iconica dai totalitarismi del ‘900. E’ imperativa la sobrietà della palette cromatica. Sono di prammatica le tinte dense ed intense, rassicuranti e virili. Come accade per l’abito, le superfici del paletot si animano di tutte le fantasie al maschile alternative all’unito. L’unico elemento che esula dalla severità è il collo, se non l’intera fodera, in pelliccia: non certo per concessione alla stravaganza, piuttosto per manifestazione di agiatezza. Con i Roaring Twenties, si attenua l’obbligo della moderazione formale. Il paletot acquista volume, si allunga, i rever tornano ad essere importanti. Con qualche micro-variazione, questa configurazione resiste sino al secondo dopoguerra. Solo con l’imporsi del “Mad Men Style”, il cappotto si riavvicina al corpo, perde centimetri in lunghezza e ampiezza, per poi recuperarli negli anni ’80, nel segno dell’edonismo. Il presente del cappotto è il presente della moda Uomo: non più tendenze impositive che cambiano da una stagione all’altra, semmai pluralità di proposte tra cui orientarsi in base al gusto o alla necessità. E ancora: attenuazione delle barriere tra formale e casual, avvicinamento alle altre tipologie di “outerwear”, ottimizzazione tecnologica nella resa materica e nella vestibilità. Giorgio Re

 

When world changes, habits and lifestyle change too and, consequently, the way of dress. … Continua a leggere →

COLLABORATORI

Oggi non si parla di moda. Oggi vi presento dei personaggi di tutto rispetto del mondo del giornalismo, dei preziosi collaboratori che già da qualche settimana arricchiscono la realtà di The Men Issue con le loro argute osservazioni. A loro, e a voi che mi (ci) seguite, un sentito grazie.

 

PAOLO ARMELLI

Laureato in Lettere moderne ma prestato alla pubblicità, scrive di libri, moda, media e altro. Ha un blog (Liberlist.wordpress.com<http://Liberlist.wordpress.com/>), una rivista online (bartlebymag.it<http://bartlebymag.it/>), su Twitter e Instagram cura “TheStyler”. Twitta su @p_arm.

MATTEO PERSIVALE

Matteo Persivale, milanese, scrive sul Corriere della Sera dal 1990. Ha lavorato in Cronaca, agli Esteri, agli Spettacoli. Al momento si occupa di moda, libri, e altro.

 

GIORGIO RE

Giorgio Re, 50 anni, di Legnano (MI), è laureato in Lingue e Letterature Straniere  Moderne all’Università degli Studi di Milano ed ha conseguito successivamente un Dottorato in Germanistica presso l’Università di Vienna. Ha lavorato per circa vent’anni per l’Ufficio Stampa della Gianfranco Ferré SpA. Attualmente collabora con la Fondazione Gianfranco Ferré e con diverse altre aziende del settore moda.

ARMY GLAM

In principio furono il montgomery e l’eskimo. Il primo fu adottato dai giovani in alternativa al paletot troppo serio dei padri. Anche nei Paesi per cui, sino a pochi anni prima, il generale britannico che lo ha tenuto a battesimo era stato un nemico. In nome del nuovo, si volle dimenticare in fretta un passato recente di ostilità. La vita si faceva più veloce, il diktat del formale diventava meno imperativo. E il montgomery si rivelò perfetto per lo scooter, primo mezzo di massa per spostarsi con facilità. Il secondo fu tra gli emblemi del Sessantotto, anno di lotte, di speranze, di desiderio di libertà. Purtroppo, per molti, fu anche la divisa degli anni seguenti, ben più cupi e cruenti.

E’interessante notare come il panorama dell’abbigliamento militare abbia sempre dato spazio alla sperimentazione e all’innovazione. E non è difficile individuare le ragioni di tale fenomeno. C’erano valenze primarie da garantire: resa tecnica, resistenza, praticità, che con il mutare degli stili e dei ritmi di vita sono divenute fondamentali anche nel vestire contemporaneo. Così, nel segno di un “military hi-tech” la ricerca di comfort non si è mai arrestata. Si è sommata invece a dinamiche più specifiche dello stile civile: l’attenzione all’estetica, alla qualità, all’originalità, persino al lusso. Generando un “army glam” che ha sue costanti ben precise nel guardaroba. Come il bomber dei piloti della RAF, reso pressoché indispensabile dal trionfo globale di “Top Gun”. O gli anfibi, che altro non sono che i discendenti delle calzature indistruttibili dei soldati yankee. O come i pantaloni cargo indumento da lavoro ma anche da combattimento, con le grandi tasche laterali, in cui i guastatori tedeschi tenevano, pronto all’uso, ogni sorta di attrezzo. Senza scordare il camouflage, nato per nascondersi nella giungla e utilizzato ora invece per distinguersi nel grigiore urbano. Una decina di anni fa, un grande della nostra moda, Gianfranco Ferrè, ha chiuso la sua sfilata Uomo con una parata di parka mimetici in seta… foderati di visone.

Trasversale ad ogni tipologia, l’army glam prosegue il suo percorso. Segna, a metà anni Ottanta, la giacca-sahariana, erede dandy di quelle dell’Afrika Korps. Così come la giacca da aviatore di Emporio Armani del 2008, in pelle ammorbidita ed alleggerita che cade con facilità sul corpo. Sino al cappotto “tecnico”, anche se impeccabile nella costruzione, che Burberry Prorsum propone quest’inverno: mancano solo le mostrine sulle spalline e i gradi cuciti sulle maniche per essere quello di un ufficiale appena uscito dall’accademia… Giorgio Re

 

At first there were duffel coat (aka montgomery) and eskimo. … Continua a leggere →

PAINTED FASHION

Da sempre l’abito è stato considerato una sorta di tela da pittore, come il corpo umano. Nelle culture sbrigativamente definite primitive, pitture e tatuaggi sulla pelle raccontano lo status sociale dell’individuo o la sua abilità nella lotta e nella caccia, secondo un repertorio sterminato di valenze simboliche. Dal corpo all’abito: tessuto, pelle e maglia, rappresentano una tabula rasa da arricchire di disegni, colori, lavorazioni – intarsi, jacquard, trafori –  tra assonanze e contrasti cromatici. Non fanno pensare ad un quadro le marsine del “giovin signore” settecentesco o i gilet del dandy vittoriano, ricamati a motivi floreali o decorati da figure di animali? La diffusione del cotone ed il progresso delle tecniche di stampa, a cavallo della rivoluzione industriale, accelerano la tendenza. Per duecento anni la mussola a piccoli disegni, relativamente a buon mercato, fornisce camicie maschili, già prodotte in serie, alle classi lavoratrici.  Fantasie più severe e più sofisticate – righe, check, pied de poule, Principe di Galles, tartan –disegnano l’uniforme dell’uomo borghese. Senza dimenticare che “la pittura dell’abito” ha costantemente guardato alla pittura in sé. La moda “ruba” tutte le correnti dell’inizio del ventesimo secolo: Dadaismo, Cubismo, Costruttivismo, Surrealismo, Astrattismo, Futurismo. Se non ai singoli maestri: Mondrian, Vasarely, Mirò, Dalì, Warhol. In questo interscambio la creatività applicata alla moda tiene sempre in considerazione le “altre” culture, come punto di riferimento sistematico nella scelta di motivi e fantasie. Recuperando tra l’altro elementi figurativi primordiali: body art, tattoo, stampe batik e lavorazioni yakut, disegni – elementari, ma coloratissimi e di forte impatto – delle stoffe prodotte dalle tribù africane o nativo-americane, dell’Oceania,  delle Ande. Questo fenomeno nasce poco più di quaranta anni fa, sostanzialmente in concomitanza con il recupero da parte degli Afro-Americani della consapevolezza delle loro radici. E da allora rappresenta un leit motiv della moda contemporanea. Si parte dalle camicie a macro-stampe ipercolorate dei primi Settanta per arrivare ai grafismi decisi ed astratti di Prada di inizio millennio. Ed ora, al blouson in nappa di Emporio Armani, in cui intarsi incredibili riescono a sommare tra loro motivi pied de coq e suggestioni etnico-tribali, vagamente guerriere. Giorgio Re

Clothes have been always considered as a painter’s canvas, as well as the human body.

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