GENTLEMEN IN TECHNICOLOR
Ai signori uomini colori e fantasie sono sempre piaciuti. Ne hanno fatto a meno per secoli, volendo invalidare i diktat, sfarzosamente caleidoscopici, in fatto di eleganza che l’aristocrazia imponeva dall’alto e dunque per attestare il primato della nuova classe leader. Le “stravaganze” cromatiche hanno conservato uno spazio, ma assai limitato, nei dettagli: panciotti, cravatte e pochette. Del resto, le “altre” culture – indiana, o cinese, o giapponese – non hanno mai rinunciato al colore, per motivi che prescindono dalla vanità, rimandando invece a ragioni di rappresentanza, ruoli ricoperti nelle gerarchie di potere, classi di appartenenza.
Tutto ciò valeva nell’Europa pre-borghese: colore uguale potere, ma anche ricchezza e sua ostentazione. Tingere le stoffe, con le sole risorse disponibili un tempo – quelle naturali – un tempo era costosissimo, dunque nel Basso Medio Evo e nel Rinascimento i farsetti a più tonalità, come le calzamaglie a bande, erano privilegio di pochi. Si è già parlato del connubio tra moda e arte, che rimanda a pieno titolo anche ad un rinnovato gusto per il colore, in relazione alle avanguardie del primo ‘900: Futurismo, Dadaismo, Costruttivismo.
Lo stesso si può dire del cinema: basti pensare a capolavori come “Blow up” o “Arancia Meccanica”. Ma va aggiunto che un inno vero e proprio al technicolor è arrivato con la Pop Art, con le esperienze di Roy Lichtenstein e di Andy Warhol – che generano poi quella di Basquiat e non ignorano quella precedente di Matisse -, con le loro dosi ben calibrate di “sberleffo” (pensiamo ai ritratti di Mao by Warhol), di aderenza ad una visione del mondo più disinvolta, ma anche con un’abilità nel gestire in modo inedito la relazione tra arte da un lato e potere in costante crescita del marketing, produzione di massa e approccio consumistico all’arte stessa dall’altro.
E qui si giunge a sfiorare un ambito che vale la pena di focalizzare: il potenziale ludico, in verità senza tempo, del colore. Pensiamo agli attori delle commedie di Plauto, ai guitti delle compagnie girovaghe, ai giullari, ai clown, alle figure della carte da gioco, per arrivare, nel secolo passato, ai personaggi dei cartoon. I fumetti sono diventati presto arte e cultura insieme, una cultura facile, “popolare” se vogliamo, fruibile senza difficoltà. E’ un mondo popolato di eroi che garantiscono identificazione ed evasione insieme, appealing perché invincibili, ma anche perché coloratissimo ed immediato nella sua potenzialità di attrazione.
L’elenco dei modelli di riferimento è infinito. C’è innanzitutto la sterminata produzione di Walt Disney o di Hanna & Barbera (insuperabile il look di Fred Flintstone…), ma c’è, soprattutto, l’esercito dei “buoni in uniforme”: Capitan America, Superman, Batman e Robin. In uniforme sì, ma sempre multicolore, tanto improbabile quanto irresistibile. Senza scordare il surreale, impareggiabile gioco di colori dell’italianissimo Jacovitti.
Il presente parla la lingua della pluralità, con facoltà di esercitare il libero arbitrio da parte di chi sceglie uno stile piuttosto di un altro. Colori,fantasie, disegni ci sono e sono graditi. Con un valore aggiunto da non ignorare: quello dell’ironia e del divertissement personale nel vestire. Talvolta, soprattutto in passerella, tutto è un po’ “osato”. Nulla però è diktat. In altre parole, continuano ad essere eleganti un bel cappotto cammello e/o un completo a Principe di Galles. Ma neppure questi ultimi sono obbligatori, neppure per un un meeting di lavoro. Non solo: il neo-technicolor ha spezzato la dittatura minimalista/modaiola del nero tout court. Garantendo flessibilità e opzioni di mix interessanti: la giacca caleidoscopica si può portare sulla maglia o sul pantalone monocolori e viceversa. Ci pare poco? Giorgio Re
Gentlemen have always … Continua a leggere →