fashion#newemotion

ITALIAN YARN

Bozzetto del bomber di Costume National per Fashion for Tibet
Per parlare di moda etica, a volte, si rende necessario cercare il bandolo della matassa. Perché è il filo il «padre» di ogni tessuto e, da come viene ottenuto e poi tinto e lavorato, si può distinguere se ci troviamo davanti ad un capo completamente safe o se, invece, a dei lati oscuri. Da qualche anno Greenpeace ha lanciato la campagna Detox che premia le strategie aziendali volte a fare risparmiare acqua, energia e emissioni di Co2. Nel mondo hanno aderito velocemente colossi come H&M e Zara. Per l’Italia si è distinta la Miroglio Textile: la holding italiana ha eliminato dai suoi filati ogni possibile traccia di inquinamento e di questa lotta ha fatto una bandiera. Rappresenta un salto rispetto alle altre aziende perché ha deciso di risalire all’origine di tutto il processo lavorativo di un capo di abbigliamento partendo, appunto, dal filo, invece che dal tessuto. Che poi fabbrica con un processo “verde” per i lavoranti e l’ambiente. E se Miroglio si distingue per il suo programma di eco sostenibilità, bisogna anche sottolineare che l’uso dei filati italiani è in ogni modo una base per ottenere una completa tracciabilità dei nostri capi di abbigliamento sia naturali sia sintetici. Come fa Costume National, ad esempio, che ha di recente unito elementi di «moda buona» ad altri di «moda etica». Ennio Capasa, il suo fondatore, ha aderito alla prima edizione di Fashion for Tibet, manifestazione volta al sostegno della popolazione e della cultura tibetana. Capi di moda sono stati creati da designer di fama internazionale e da marchi che hanno preso la loro ispirazione dalla mostra ‘Trascending Tibet”, opere d’arte di ventisei artisti tibetani contemporanei e quattro occidentali e asiatici il cui lavoro incorpora temi tibetani. La mostra culminerà in un cocktail e un’asta dal vivo degli oggetti offerti la sera del 9 Aprile al Rogue Spazio Chelsea. Capasa partecipa con un bomber  maschile di tessuto tecnico da lui ideato, del tutto Made in Italy e quindi completamente tracciabile anche se sintetico. Buono e salubre. Luisa Ciuni
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FASHION TRACEABILITY

Showroom Lardini

Sapete da dove provengono gli abiti e le scarpe che indossate? Siete certi della tracciabilità di pantaloni, capispalla, T-shirt? La risposta nella stragrande parte dei casi è no. Perchè questo dato spesso è considerato di nessun interesse, un elemento che non merita alcun approfondimento. Invece, ad un più attento ragionamento, si rivela un elemento importante sia dal punto di vista strettamente etico sia da quello ecologico. Conoscere con sicurezza da dove vengono gli abiti che si hanno addosso significa sia potere fronteggiare velocemente casi di allergie ai tessuti sia di potersi rendere conto se al prezzo dell’oggetto acquistato corrisponde un effettivo valore. Infatti, un conto è comprare una giacca termosaldata fabbricata in Asia, un conto è pagare un capo artigianale italiano; se la cifra versata è la stessa, sono molti gli elementi che non convincono; la spesa, se alta, nel caso del capo estero è iniqua. Un prodotto italiano offre concrete garanzie di essere stato eseguito seguendo le leggi, utilizzando materiale non tossico, impiegando lavoro adulto. Il resto? Spesso rimanda a paghe irrisorie, colle o fissatori pericolosi, sfruttamento dell’essere umano spesso dei minori, sfruttamento del territorio. Oggi i consumatori moderni apprezzano sempre di più di acquistare vestiti fabbricati senza commettere ingiustizie o reati e sempre maggiormente richiedono informazioni sulla provenienza dei prodotti. E anche in Italia la nuova mentalità si va affermando. Un azienda come Lardini – per non citarne che una – utilizza solo stoffe italiane per i capi maschili ricreandole in alcuni casi su antichi disegni d’archivio e alleggerendole (specie le lane) per formare abiti di taglio e leggerezza contemporanei. Le asole sono fatte a mano e un sarto attacca le maniche. Tutto il processo produttivo – dall’ideazione alla messa a punto – è italiano e rintracciabile passo a passo. La novità? Il ritorno dell’ecologico crine nell’imbottitura della spalla. Un dettaglio che fa la differenza e che è un passo avanti verso un prodotto tutto ecocompatibile. Luisa Ciuni

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FASHION #NEW EMOTION

La moda davanti ai cambiamenti tecnologici, cosa fare, come fare. Con questa metafora si può iniziare per introdurre il tema approfondito al Client Center dell’IBM ieri alla presenza di Emanuela Testori, direttore di Amica, Alessandro Calascibetta, direttore di Style Magazine e blogger, di Michele Ciavarella, penna critica della moda per RCS, di Armando Branchini, vicepresidente della Fondazione Alta Gamma, e di alcuni rappresentanti del commercio e dell’ industria del fashion chiamati anche attivamente a dibattere sui cambiamenti, coordinati da Calascibetta. Un momento di approfondimento promosso dal gigante dell’ informatica e dalla rivista Amica.

Vari interlocutori della IBM hanno spiegato in dettaglio le novità del settore che la digitalizzazione ha cambiato fin dalle fondamenta. In un futuro piuttosto vicino, il consumatore, grazie ad una più stretta connessione fra cellulare e computer, godrà di un servizio personalizzato, ritagliato su misura ed elaborato da precisi algoritmi che studieranno moment by moment i suoi desideri. Come? Grazie a un monitoraggio dati sistematico delle sue incursioni sul web alla ricerca di varie merceologie.

E, se gli esempi degli analisti potevano sembrare ingenui a chi si nutre di pane e moda (la signora seguita nei gusti dai brand attraverso un’app che arriva ai commessi del suo negozio di riferimento, ad esempio), non c’è dubbio che il futuro sia adesso e che per il retailer già rivoluzionato dalle vendite on line si stiano profilando nuovi e più profondi cambiamenti.

Sul nuovo shopping si sono espressi Umberto Angeloni, Ad di Caruso, Giuseppe Tamola di Zalando, Pietro Mascio di Yoox, Salvatore Ippolito di Twitter, Cristiano Sturniolo di Liu-Jo e Mario Dall’Oglio, presidente della Camera dei buyer della Moda. Ognuno con posizioni diverse rispetto all’e-commerce ma tutti concordi sulla necessità di lavorare sul futuro.

Gli analisti IBM hanno anche lavorato per delineare che tipo di consumatore emerga da determinate parole chiave intercettate sui social network durante le sfilate di Milano e Londra, e sottolineato come sia crescente anche l’interesse per una moda etica ed ecosostenibile.

Tutti, quindi, con app alla mano per intercettare gusti, tendenze e capacità di spendita. Con molte piu certezze che in passato. Forse. Luisa Ciuni

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GREEN GARMENTS

Le sneakers Green California di Gucci
Sono sempre di più le aziende della moda che si preoccupano di produrre in maniera eco sostenibile. E questa sensibilità è sicuramente «figlia» di quel rinnovato senso comune di cui il fashion è sempre un grande sensore. Il consumatore oggi è più contento, più motivato se sa di comprare oggetti buoni oltreché buoni oggetti. Ma una moda eco sostenibile o prodotta secondo queste norme non è per forza anche etica anche se è giusto sottolineare che la sensibilità di chi accetta di non inquinare acque e ambiente effettivamente si coniuga al meglio con la cura della natura. La parola etica comprende però più elementi rispetto al solo rispetto per l’ambiente. Include la proprietà intellettuale, ad esempio, la tracciabilità della filiera dei materiali, il rispetto delle norme di sicurezza del lavoro. E questo per non parlare che di alcuni elementi che rendono morale la creazione di un prodotto. Tuttavia, l’eco sostenibilità  porta già da sola sulla strada giusta ed è foriera di futuri grandi sviluppi. Tra i grandi marchi un antesignano della cura dell’ambiente è senza dubbio Gucci che ha il merito di avere iniziato alcuni anni prima di tutti gli altri il suo cammino per azzerare l’inquinamento produttivo. Dal 2012 la casa fiorentina produce inoltre un sandalo da donna biodegradabile e una sneaker maschile (nome rivelatore: Green California) dalla tomaia altrettanto safe; a questi oggetti unisce anche delle montature per occhiale ugualmente in accordo con la natura. Una strada importante, quella tracciata, che gli altri marchi dovrebbero affrettarsi a copiare di corsa…come se si trattasse di una fantasia o di una borsa particolarmente riuscita. Luisa Ciuni
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ITALIAN CRAFTMANSHIP

Una fase della produzione delle scarpe Ferragamo
Quanto vale la manualità di un essere umano? Quanto la capacità di un artigiano fa – o non fa – ai fini del costo di un prodotto? Il problema che si apre in questo caso è uno di quelli centrali ai fini etici perché la mano non solo è la base della differenza fra una cosa e un altra, non è solo una delle poche armi rimaste contro la massificazione del gusto. É anche e soprattutto il punto di non ritorno fra un concetto occidentale avanzato di lavoro (fornito di tutele, diritti e giusto guadagno) e il suo parente povero diffuso nei paesi in via di sviluppo. Un prodotto etico è un oggetto che rispetta il costo del lavoro, la proprietà intellettuale, le condizioni umane dei luoghi in cui questo si svolge e tutto quello che ciò significa. E, quindi anche un forte no (forse il più forte) allo sfruttamento minorile e umano che avviene in certi paesi o in alcuni capannoni ben diffusi anche nella penisola. Non è necessariamente un oggetto che costa poco, ma un qualcosa che offre un valore a secondo della spesa che richiede. La capacità artigiana è stata una delle basi del boom del made in Italy. Oggi la ritroviamo intatta in un marchio come Salvatore Ferragamo e nella costruzione della calzatura lavorata a tramezza, un complesso di costruzione della scarpa che consta di 320 fasi distinte e oltre 4 ore di lavorazione manuale. Il fine è la perfetta tenuta della scarpa coniugata con una consistenza ottimale della suola. Un procedimento costoso che ha radici antiche e che può essere scimmiottato dal punto di vista formale ma non sostanziale. Se quindi vogliamo parlare di prodotto etico, dobbiamo accettare anche che lo sia un manufatto costoso ma realizzato in condizioni di libertà democratiche. Un prezzo basso può sembrare democratico e ma spesso è solo il risultato dello sfruttamento di un essere umano costretto a lavorare in un luogo insalubre per una paga di fame. Luisa Ciuni
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