E’ possibile immaginare il Conte Galeazzo Ciano – uomo-immagine del regime, nonché Ministro degli Esteri del Regno d’Italia – nel palco dell’Opera di Roma in… “fumante”? Pur con un certo sforzo, si deve riuscire nell’operazione. Poiché, nell’imperativa campagna di italianizzazione dei termini stranieri praticata durante il ventennio, “fumante” altro non è che la traduzione di smoking, il completo da sera maschile per eccellenza. Per quanto grottesca, l’espressione “fumante” rimanda – proprio come “smoking” – alle originarie occasioni d’uso del capo: al termine delle cene di gala, negli intervalli di una rappresentazione teatrale, nei casinò, durante i balli o altre serate mondane, era consuetudine che gli uomini si separassero dalle signore per fumare, così da non arrecare loro molestia con l’odore del tabacco. Del resto, lo smoking attuale ha un antesignano anglosassone in una sorta di veste da camera – smoking jacket – indossato sopra l’abito perché quest’ultimo non si impregnasse di fumo. Nell’accezione comune, lo smoking figura come il nonplusultra del glamour al maschile. In effetti, è il risultato di una notevole semplificazione borghese della “tenue de soir”, una volta scomparse le leziosità Ancien Régime. E’ un capo piuttosto recente, inesistente sino al 1860 circa. Leggenda vuole che il primo smoking sia stato tagliato nel 1865 in Savile Row per il Principe di Galles, erede al trono per svariati decenni e poi Re Edoardo VII. Ma dalla sua “invenzione” lo smoking necessita ancora di un ventennio per soppiantare il frac come abituale completo da sera.
Smoking nell’Europa continentale; dinner jacket – nella terminologia attuale – nel Regno Unito; dinner suit in Australia e tuxedo nel Nord America – perché debutta per la prima volta al Tuxedo Club nel New Jersey. Qualunque sia la variazione lessicale adottata, il concetto porta in sé l’idea di eleganza, ma anche di rigore e soprattutto di regola. E le regole non mancano: non si indossa prima delle 18; ha i rever in satin ed i bottoni ricoperti nello stesso tessuto; dovrebbe – il condizionale è d’obbligo – essere soltanto nero, come il papillon, ma anche a questo proposito vale il “dovrebbe”… Il suo taglio riflette quello dell’abito formale: sottile dalla Belle Epoque a tutti gli anni Venti e poi di nuovo nei Sessanta, più generoso nelle proporzioni nei decenni intermedi. Tante regole, altrettante eccezioni. gli Statunitensi adorano la giacca bianca – indimenticabile quella di Humphrey Bogart in “Casablanca” – che fa sempre “gentiluomo del vecchio Sud”. Negli anni Trenta il Duca di Windsor – lui poteva permetterselo – osa il midnight blue in alternativa al nero. Dai Quaranta in poi i gruppi musicali – dai Platters ai Beatles pre infatuazione indiana – sfoggiano giacche colorate e persino laminate – sul pantalone nero. Con l’avvento dell’era beat e del glam rock poi, la situazione pare sfuggire di mano. Per lo smoking valgono tutti i colori del caleidoscopio, i papillon si ingigantiscono come i risvolti, i pantaloni si allargano “a zampa d’elefante”, al posto della scarpa stringata in vernice nera si vedono persino stivaletti con tanto di plateau. Gli eroi del flower power applicato alla tenuta da sera maschile sono Elton John, Mick Jagger, il primo David Bowie, Björn e Benny degli Abba. Ma, si sa, le mode passano. Resta lo stile. Giorgio Re