Una fase della produzione delle scarpe Ferragamo
Quanto vale la manualità di un essere umano? Quanto la capacità di un artigiano fa – o non fa – ai fini del costo di un prodotto? Il problema che si apre in questo caso è uno di quelli centrali ai fini etici perché la mano non solo è la base della differenza fra una cosa e un altra, non è solo una delle poche armi rimaste contro la massificazione del gusto. É anche e soprattutto il punto di non ritorno fra un concetto occidentale avanzato di lavoro (fornito di tutele, diritti e giusto guadagno) e il suo parente povero diffuso nei paesi in via di sviluppo. Un prodotto etico è un oggetto che rispetta il costo del lavoro, la proprietà intellettuale, le condizioni umane dei luoghi in cui questo si svolge e tutto quello che ciò significa. E, quindi anche un forte no (forse il più forte) allo sfruttamento minorile e umano che avviene in certi paesi o in alcuni capannoni ben diffusi anche nella penisola. Non è necessariamente un oggetto che costa poco, ma un qualcosa che offre un valore a secondo della spesa che richiede. La capacità artigiana è stata una delle basi del boom del made in Italy. Oggi la ritroviamo intatta in un marchio come Salvatore Ferragamo e nella costruzione della calzatura lavorata a tramezza, un complesso di costruzione della scarpa che consta di 320 fasi distinte e oltre 4 ore di lavorazione manuale. Il fine è la perfetta tenuta della scarpa coniugata con una consistenza ottimale della suola. Un procedimento costoso che ha radici antiche e che può essere scimmiottato dal punto di vista formale ma non sostanziale. Se quindi vogliamo parlare di prodotto etico, dobbiamo accettare anche che lo sia un manufatto costoso ma realizzato in condizioni di libertà democratiche. Un prezzo basso può sembrare democratico e ma spesso è solo il risultato dello sfruttamento di un essere umano costretto a lavorare in un luogo insalubre per una paga di fame. Luisa Ciuni